sasha vinci


Dialogo con Daniele Capra

DC: Sasha, che cos'è per te il disegno? Perché è così importante nella tua pratica? A cosa ti serve? Che uso ne fai?

Sasha Vinci: È profumo di grafite, di pigmenti, di inchiostri, di oli, di essenze naturali, di argilla, odore epidermico della mia pelle. Oggi, a fine novembre 2016, penso al disegno e appare un ricordo del maggio 1985.

"Maggio 1985. Via Enrico Toti era un selciato bianco, la memoria iblea non era ancora affogata nell'asfalto. All'improvviso, un suono ritmato giungeva da lontano. Un cavallo al trotto con nobile andatura procedeva verso i ruderi dell'ex convento dei Cappuccini. Era il giorno della monta. Il ferro degli zoccoli, battendo sulla pietra calda, emetteva un suono magico. Aprii la porta di casa gridando con i toni alti di un bambino: «u cavaddu, u cavaddu». In un istante mi lanciai in una folle corsa, ma dopo pochi passi inciampai su una pietra leggermente rialzata. La caduta inevitabile. L'ennesimo squarcio ai vestiti, alle ginocchia, ai gomiti, «chi la sente mia madre», pensai. Lesto mi sollevai da terra e zoppicando ripresi la corsa; non per seguire il cavallo, solo per nascondermi nella piccola casa della zia 'nCilina, un'anziana donna del quartiere. Nessun legame di parentela, solo un infinito, tenero affetto. Ella era abile nell'occultare, alla vista di mia madre, gli strappi e le sbucciature che quotidianamente mi procuravo. Amorevolmente curò le ferite e ricucì i vestiti lacerati dalla caduta. Io, bambino, piangevo per il dolore. Finito di rammendare, con i pochi denti tagliò il filo di cotone e svestì l'ago, si mosse verso il tavolo e da un cassetto tarlato tirò fuori dei fogli spiegazzati, una matita, dei colori spuntati e disse: «forza Sashiuzzu disegna u cavaddu, accussi ti passa u ruluri». Logicamente non avevo mai disegnato un cavallo. La matita iniziò a scivolare sul foglio, ad intervalli irregolari chiudevo gli occhi qualche istante per ricordare le forme fiere dell'animale, quando li riaprivo le linee continuavano a sovrapporsi, a incrociarsi. Non ricordo il tempo impiegato nel realizzare il disegno, ricordo soltanto che la figura prendeva forma e il dolore alle ginocchia e ai gomiti si leniva, e pensavo, «minchia funziona». Completata l'opera mi alzai dal tavolo per osservare con la giusta prospettiva il foglio. La voce della zia 'nCilina esclamò: «chieca è?».  Effettivamente non sembrava un cavallo, piuttosto una chimera. Gettai la matita per terra, uscii dalla piccola casa per riprendere zoppicante la corsa verso il convento. La monta era appena iniziata, non potevo perderla."

Da quel lontano '85 diverse chimere hanno attraversato la mia vita, fissando in modo indelebile la loro esistenza sulla carta. Il segno è la linea della vita che quotidianamente percorro, e incessantemente ne osservo il mutare, verso nuove forme di rappresentazioni mentali ed estetiche. Idee e concetti si accordano sul foglio creando mondi complessi, spazi aperti tra ordine e caos dove agire, per raccontare la pluralità delle storie in cui mi sento coinvolto.

DC: Conta molta la tua storia personale nella tua ricerca?

SV: Tutte le opere che ho creato riflettono i ritmi della mia vita. Inizialmente la ricerca era alimentata dall'io, dalle ombre dell'inconscio, dalle tensioni familiari, dalle pulsioni sessuali ed erotiche inconfessate. Con il trascorrere del tempo, al viaggio si aggiungono nuovi desideri, nuove motivazioni, la dimensione personale incontra lo sguardo dell'altro: nuove e differenti ricerche prendono forma. Oggi partecipo attivamente al presente, ed esamino gli andamenti umani, naturali, sociali, politici. Le contraddizioni e le evoluzioni della realtà contemporanea diventano il Teatro Vivo in cui respiro, abito ed esisto.

DC: Il teatro è anche la modalità che sta dietro al lavoro a quattro mani con Maria Grazia Galesi. I viaggiatori indossavano il fuoco della bellezza inscena la potenza di una rappresentazione religiosa in cui i fiori mostrano la propria bellezza celando l’identità delle persone…

SV: Il théatron è lo spettacolo della vita, la comunità in cui ho scelto di vivere, interagire, creare: la città di Scicli, un teatro vivo che trasmette conoscenze, emozioni e mi sussurra le storie del tempo. La piccola città diventa il luogo in cui esplorare il mistero della condizione umana: il punto di origine di uno sguardo che si irradia sulle condizioni del mondo. A Scicli, inoltre, l'incontro con Maria Grazia Galesi sancisce la nascita di un percorso condiviso. Il fiore diventa il simbolo di un legame che caratterizza e bilancia le nostre complessità individuali. Da un elemento naturale germoglia infatti una diversa ricerca, in cui due personalità trovano equilibrio e conciliazione. I viaggiatori indossavano il fuoco della bellezza è un'opera in cui l'antica ritualità del fiore tenta di ricucire gli strappi sociali e risanare le ferite che i giochi di potere infliggono alle società contemporanee e ai popoli della terra: un'iconografia per far fiorire nel cuore delle persone il valore delle diversità, un canto alle alterità. In uno spazio indefinito, imparziale e bianco: gerbere, crisantemi, un cerimoniale laico. Dai corpi sbocciano fiori di carne e si colora il possibile: un viaggio per esistere nell'altro.

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