sasha vinci


Testo di Giovanni Tidona

È ormai opinione corrente che l’arte figurativa, in tutte le sue accezioni e manifestazioni, sia animata al fondo da un proposito mimetico: si fa arte perché si imita l’apparenza, cioè le cose che appaiono, il mondo, la natura, il corpo, i temporali, i sentimenti e - non irrilevante - perfino altre opere d’arte, insomma tutto ciò che in un linguaggio metafisico viene designato come ente: tutto ciò che esiste, o perlomeno che appare. E basta pensare all’opera di Platone o alla Poetica di Aristotele (tanto per citare i più illustri progenitori dell’estetica occidentale) per rendersi conto che alla radice del fenomeno arte, almeno storicamente da Senofonte in poi, vi sia la mimesi, la quale, s’intende, non è pedissequa copia del reale – se non altro perché la mimesi pura non esiste - bensì strategia di rappresentazione del mondo, quand’anche in modo estremamente mediato o anti-naturalistico.

        Ma stando così le cose, può l’arte solo rappresentare? È essa solo imitazione dell’apparenza? Oppure, per volgere la domanda retrospettivamente, è mai stata l’arte qualcosa di diverso dalla mimesi, qualcosa che in qualche modo ancora oggi si potrebbe tentare di recuperare? In quest’ultimo caso la risposta è sì, e che cosa l’arte – e guarda caso, in particolar modo la scultura – sia stata prima di diventare imitazione dell’apparenza lo spiega il grecista Jean-Pierre Vernant:

     A cavallo tra V e IV secolo, la teoria della mimesis, l’imitazione, abbozzata da Senofonte e poi elaborata in modo veramente sistematico da Platone, segna il momento in cui, nella cultura greca, si compie l’inversione che porta dalla presentificazione dell’invisibile all’imitazione dell’apparenza.[1]   

        Secondo Vernant l’intento dell’arte, prima che questa diventasse rappresentazione di cose, era  il presentificare. Il fine dell’arte era, all’interno di questo paradigma collocabile prima di Senofonte e in genere prima della nascita della filosofia, nient’altro che la presentificazione dell’invisibile, operazione che, rendendo per esempio in una scultura il dio concreto e materico, intendeva “stabilire una vera e propria comunicazione, un autentico contatto con la potenza sacra […] la sua ambizione è di rendere presente questa potenza hic et nunc, per metterla a disposizione degli uomini, nelle forme richieste dal rito[2]. Questo genere di produzione artistica – conosciuta a noi soprattutto attraverso Pausania come Xoana, idoli di legno dalle forme primitive – muoveva dalla volontà fideistica di stabilire con l’aldilà un contatto reale, di attualizzare un’entità che non era originariamente della terra, bensì dell’invisibile; e mediante essa – o meglio, mediante la sua presentificazione – assegnare agli dei o ai morti un posto nel nostro ben determinato mondo dell’apparenza, cioè delle cose visibili. Consapevole però del fatto che presentificare una divinità non poteva affatto essere un’operazione di riduzione del carattere sacrale o irrazionale di questa, o del suo precipuo essere altro dagli uomini, conclude Vernant: “Stabilire con l’aldilà un contatto reale, attualizzarlo, presentificarlo […] ma, al tempo stesso, sottolineare quanto di inaccessibile, di misterioso, di fondamentalmente diverso ed estraneo sia sempre connesso con la divinità - è questa la tensione che ogni forma di raffigurazione deve necessariamente instaurare, nell’ambito del pensiero religioso[3].

        In riferimento alle osservazioni di Vernant possiamo allora intendere il titolo della personale di Sasha Vinci come programmatico: “You are here, you exist (Tu sei qui, tu esisti)”, è infatti l’appello e il principale desideratum dell’artista nei confronti delle proprie opere, nel quadro di un tentativo di recupero di questa natura sacrale, primitiva e dimenticata dell’arte come presentificazione, poi razionalisticamente scalzata dall’arte come rappresentazione mimetica. Non è la prima volta che il nostro artista si cimenta con un recupero del mito - si veda ad esempio L’Icaro del 2005 - ma stavolta lo fa prendendo avvio da una lirica di Walt Whitman ([…] The question, O me! so sad, recurring - What good amid these, O me, O life?/ Answer/ That you are here - that life exists, and identity/ That the powerful play goes on, and you will contribute a verse[4]), e muovendosi soprattutto all’interno di un paradigma estetico in cui l’arte viene intesa come creazione, l’artista come demiurgo, e in cui l’opera non è mimetico rinvio a qualcos’altro, bensì viene vissuta come il “verso che contribuisce allo spettacolo del mondo” di Whitman e come la testimonianza di un’entità che sussiste come evento autonomo, come presenza creata, non completamente riducibile al nostro mondo – come lo erano gli Xoana – ma ciononostante presentificata qui e ora. Presentificata vuol dire in un certo senso anche viva, Tu sei qui, tu esisti.

        Non è forse superfluo notare che ci si muove qui non tanto all’interno di una poetica, quanto di una fede: la fede nella capacità generatrice dell’arte e soprattutto della scultura, nella prassi e nel fare che dà la vita alla materia, e nella natura ibrida del prodotto dell’arte, la materia scolpita: e per quanto riguardo l’ibridazione – la natura incerta - delle sculture, è qui che si annida, tra le altre cose, il rifiuto di considerare l’opera d’arte, in definitiva, come mero artefatto (seppur dotato di caratteristiche proprie), cosa che il paradigma mimetico inevitabilmente porta a fare e che invece era categoricamente esclusa dal precedente paradigma della presentificazione del dio (gli Xoana venivano portati in processione, lavati, vestiti, rivestiti e alla fine riposti in una vera e propria dimora: ciò a testimoniare dell’allora profondamente diverso atteggiamento nei confronti dell’opera, atteggiamento che più che estetico si potrebbe definire etico). Per queste ragioni Sasha, nel suo tentato ritorno al mito (e si sa quanto questo sia difficile da imbrigliare per la ragione) si riconosce a mio parere in una poetica che è realtà è una pre-poetica, cioè in un credo  nella facoltà creatrice dell’arte e in una cura delle opere che si è definita prima che l’arte – così come la conosciamo oggi noi occidentali, nei suoi usi, nelle sue manifestazioni, nel suo ruolo – si sviluppasse: ancor prima che la filosofia nascesse, prima che il pensiero razionale cambiasse (seppur non totalmente) il volto mitico del mondo.

        È dunque ciò a rendere Sasha un artista singolare, originale e audace: non il fatto che egli rompa degli schemi consolidati – se non altro perché schemi da rompere non ce ne sono più, poiché essi sono già stati tutti frantumati, superati e ricostruiti, anche quando ironicamente riciclati - quanto piuttosto il suo richiamarsi a quel passato, a quella visione del mondo del sacrale hic et nunc, ne fa un artista rivoluzionario (revolvo, non dimentichiamo, significa in latino ritornare). La rivoluzionarietà delle opere e del fil rouge di questa esposizione (Tu sei qui, tu esisti) risiederà allora nel loro ritornare ad un’antica funzione e comprensione del fatto artistico, che è così antica che anche dal punto di vista dell’estetica classica viene considerata pre-istorica: la funzione del culto, l’attestazione del valore artistico come il recupero dell’esistenza/presenza dell’opera stessa, che da una parte è limite tra due mondi (non rappresenta il confine tra questi, bensì lo è, lo sostanzia), dall’altra è l’heideggerianamente inteso Esserci, il Dasein (du bist da è infatti il tedesco di you are here), progetto estratto dal nascosto (dall’invisibile di Vernant) per essere gettato nel visibile, nel mondano, nello svelato che altro non è che la terra.

        Le opere d’arte vogliono allora, almeno programmaticamente, essere qua, da-sein. Con tutte le difficoltà che il termine tedesco porta con sé, a cominciare dalla natura piuttosto indefinita di questo da, che in genere indica un luogo intermedio tra il qui e il là, ma non in senso rigorosamente spaziale; il termine venne infatti scelto da Heidegger anche perché esso adombra, più che una mera e “oggettiva” localizzazione topografica, una vera e propria partecipazione al mondo (esso significa anche, sostantivato, “esistenza”); e del resto anche Whitman, sebbene per altre vie, suggeriva di partire proprio dal dato dell’”esserci” per “contribuire” e “partecipare” allo spettacolo del mondo.

        Ora, che le opere vogliano essere presenza in senso greco o esistenza come Dasein, non è sufficiente affinché queste si costituiscano come presenza o esistenza eterne: anzi, la consapevolezza della morte aleggia già alla radice del processo che le portate nel Welt (nel mondo heideggeriano) o nel Kosmos degli uomini, il quale è, appunto, la contrada dell’essere finito e corruttibile, alla quale si approda venendo dal nulla con la nascita per poi uscirne nuovamente con la morte. La tensione tra l’essere e il nulla, la vita e la morte, la presenza e l’assenza, la produzione e la distruzione è infatti alla base del lavoro del nostro artista, come ho già mostrato in un altro mio scritto, al quale mi concedo il lusso di rimandare[5]: qui basti dire che la stessa idea della presentificazione dell’opera reca con sé (quand’anche percepibile solo come sfondo, ma non per questo meno attivo) il proprio correlativo dialettico della nientificazione di questa. In altri termini: l’opera, nell’orizzonte di estrazione greca che è stato evocato, è presenza che testimonia sì la sua appartenenza ad un mondo fisico, terreno, insomma al mondo dell’esistente; ma allo stesso tempo, e proprio attraverso il suo essere qua, ricorda la sua provenienza da un’altra dimensione, che è la dimensione dell’invisibile e di un ignoto aldilà contrapposto all’aldiqua del Dasein: una dimensione che l’uomo non conosce, di cui non dispone e dalla quale tuttavia proviene e alla quale tende costantemente durante il suo transito nel mondano: insomma, ciò che già a partire dalla metafisica classica è stato identificato in termini ontologici con il nulla.

        È chiaro che la consapevolezza del nulla intesa come correlativo dialettico dell’essere è stata poi nella storia del pensiero diversamente articolata (tanto per dirne una, Heidegger per esempio vedeva nella morte die eigenste Möglichkeit des Daseins, la possibilità più propria del Dasein): ma sono questioni che qui non si possono approfondire. Ma che si tratti di Sein zum Tode heideggeriano o di un più generico memento mori che Sasha comunque già da tempo mette in scena (e per il quale, mi confidava, trae ispirazione dalla Cripta dei Cappuccini di Palermo), ciò che conta è che la presenza di queste opere resta qualcosa di aporetico, ora una diafana presenza/assenza, ora un limite creato tra un aldilà e un aldiqua, in ogni caso uno scarto tra due mondi: esattamente come gli Xoana, che costituivano la soglia tra il divino e l’umano, o come le salme imbalsamate di Palermo, che ci sono ma allo stesso tempo non ci sono; e in generale come l’esistenza umana, che appunto è da sempre e  ab origine marcata dal segno dell’ambiguità.

        Sasha ha il merito di portare alla luce tutto ciò, e di dargli forma. Lo fa ritornando ad un’originaria purezza mitica dell’arte, e passando anche attraverso suggestioni contemporanee; ma tenendo ferma, come punto di partenza e anche di approdo, questa complessa idea della presentificazione, di una presenza dell’arte che non esiterei a definire religiosa (naturalmente in senso a-confessionale) e dell’esistenza dell’opera in quanto presenza gettata, limite e aporia irrisolta.                                                                            


[1] Jean-Pierre Vernant, Image et Signification, Rencontres de l’École du Louvre, Paris, 1983. Ed. it. Tra mito e politica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1998, p. 167.

[2] Ibid., p. 168.

[3] Ibid., p. 169.

[4] O Me! O Life! in Leaves of Grass; trad. it. Ahimè! Ahi Vita!, in Foglie d’Erba, Lungo la strada, Einaudi, Torino, p. 350.   

[5] Giovanni Tidona, Il fragile compromesso del funambolo, in equilibrio tra il mondo e la sua coscienza, parzialmente edito in Abitare Magazine n.1, Ottobre-dicembre 2006.

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